Parigi, un anno fa…
di Paola Pizzo
“Ho dovuto farmi una lunga doccia con l’acqua bollente, al punto da scottarmi la pelle. Ho dovuto vedere mio padre disteso sul divano a guardare un po’ di sport in tv, dopo una no stop di notiziari andata avanti per due giorni. Ho dovuto sentire mia madre indaffarata mentre lava i piatti di là, in cucina. Ho dovuto attendere che mia sorella uscisse con il fidanzato, per andare a mangiare una cosa fuori. Ho dovuto tornare alle piccole cose di ogni giorno per rendermi conto che sono di nuovo dentro la mia realtà. Che qui e ora non è più Parigi. Che qui e ora è la vita.
Perché in quella città anno zero dell’arte, che venerdì mattina mi “regalava” la Gioconda, le ultime 36 ore sono state irreali, di non vita. In tutti i sensi. Perché ho dovuto aspettare di mettere piede su un aereo semivuoto e vedere un padre innocente addossarsi la colpa per aver deciso di “festeggiare il compleanno di mia figlia a Disneyland” e ripensare a quell’edicolante che sabato mattina è scoppiato in lacrime quando gli ho chiesto “dov’è il Bataclan?”, per capire che le ultime 36 ore sono state Parigi, sono state realtà irreale, sono state vita strappata.
E forse adesso non ho neppure il diritto di scrivere queste righe, ma un giornalista di vecchio corso dice che nero su bianco “poi è una maniera di elaborare la botta”. E forse c’ha ragione. Venerdì sera in Boulevard Voltaire potevamo esserci la mia famiglia ed io. In fondo, mentre in quella strada impazzavano pallottole e dolore, mentre l’aria si sporcava di urla e sangue, noi cenavamo a circa dieci minuti da lì. In un locale scelto per caso. In un ristorante che, come ognuno dei locali di Parigi dove la vita scorre ogni giorno, avrebbe potuto essere scelto anche dalla follia di chi vuole solo consumarla quella vita lì. Giovedì davanti allo stadio ci siamo passati anche noi, abbiamo chiesto se fosse quello della Nazionale o del Paris Saint Germain. E ho anche ironizzato, ma sottovoce a scanso di una violenza che è poi arrivata da altrove, “ah, quello di monsieur Zidane”.
Ho dovuto aspettare di salire su un aereo, di farmi una doccia, di osservare casa e annusarne l’odore per sentire la pelle pizzicare, quasi a dirmi “sei viva, tu”. Ed è così, allora, che cambiano le prospettive, o almeno che cominciano a cambiare. Che le priorità si combinano secondo un ordine nuovo. E ripassando con la mente ciò che è stato, mi rendo conto che devo ringraziare anche quello “stronzo” di Napoleone che si è fatto negare. Trovare chiuse – per un soffio – le porte de Les Invalides mi ha dato un’ora di vantaggio sull’inferno. Anche se l’inferno il suo conto lo ha presentato comunque. A me, alla mia famiglia, al mondo tutto. Ed è il conto della paura, per una vita che è tale solo qui e ora”.
Queste parole le scrivevo un anno fa, al ritorno da Parigi. La Parigi straziata dalle stragi. E ci sono momenti, pezzi di vita, che forse “ricordi” non diventeranno mai. Troppo vividi, troppo scottanti, troppo perenni, anche quando la mente li mette a tacere. Pezzi di vita che sono semplicemente troppo. Al punto che persino il puntuale algoritmo di Facebook sembra arrivare in ritardo. Non essere, poi, così attento come vorrebbe.