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Metti una sera a cena (al buio)

C’è l’avvocato di Bolzano che nel dialetto siciliano ha sempre confuso mischino per meschino e c’è una coppia di fratelli che lavorano nella macelleria di famiglia ma sognano oltre il bancone.

Sognano di musica, di fotografia, di poesie e di vini pregiati, sognano vita. C’è un giovane avvocato che arriva dalla provincia, racconta della sua maniacalità per il proprio lavoro, della sua sindrome da prima della classe. E la mette a nudo lì, davanti a questi sconosciuti, con quel suo sorriso aperto e sincero che non te la fa sembrare secchiona come lei stessa si definisce. C’è chi legge in francese e parla del lavoro nelle organizzazioni umanitarie come la cosa più naturale del mondo, a me che non ho mai neanche aiutato un vecchietto ad attraversare la strada. E mi sento piccola piccola. Chi insegna ai bambini, chi vive affondato nei libri di cui conosce tutto, chi non teme di commuoversi davanti a tutti leggendo il risvolto di copertina di un libro che non ha avuto mai il coraggio di iniziare. Una tavola sociale è questo, è scoprire l’altro. È avere il coraggio di mostrarsi. È osservare e lasciarsi osservare.

Arrivo alle 20,40, sono in anticipo. Al buio non trovo il cancello, non vedo il citofono. Quattro piani di scale mi lasciano senza fiato, e presentarsi mentre hai il fiatone non è bello. Sono invitata a cena. Ma è una cena speciale. È quello che si chiama home restaurant ma che a Palermo Valentina Chiaramonte ha interpretato a modo suo, lo ha chiamato “Chez Munita”. Lei è la padrona di casa ma anche la padrona dei fornelli.  Ha studiato in Piemonte, ha lavorato a Milano e poi con lo stellato Claudio Ruta a “La Fenice” di Ragusa. E ora è tornata a casa sua. Una casa che sa di nuovo, di amore, di cura per i particolari. Una casa in cui Valentina ha portato su per quattro piani settanta piatti, pesanti come macigni ma che sono la sua scommessa. Una casa in cui con i pallet ha realizzato un servant che fa anche da piccola cantina, in cui libri e dischi riempiono pareti e pareti, in cui non c’è la tv. In cui una piccola cucina a vista sul soggiorno è stata adattata alle esigenze di chi ha cucinato in una sala di 600 metri quadrati. E qui spazi, pentole e attrezzi devono trovare la loro dimensione e il loro posto. E qui ospita dodici commensali per volta, dodici persone che fra loro per lo più non si conosco, pronte a mettersi in gioco.

Una cena così le costa tre giorni di lavoro, il suo lavoro. Perché Valentina è una chef, anche se lei dice “solo cuoca”. E lo dimostra nella scelta delle materie prime, negli accostamenti equilibrati, nell’uso di erbe e polveri. Siamo a casa, seduti a questa lunga tavola bianca e nera, serviti come al ristorante, con grande cura per i dettagli, con l’attenzione e la gentilezza di chi sta al fianco di Valentina anche in questa avventura. Sui piatti che sfilano c’è estro ed eleganza. Il gambero incontra i piselli, lo sgombro si sposa con il peperone rosso, la spatola lega con la salsa di acciughe mai invadente e con la freschezza del sedano. Nel predessert senti pizzicare lo zenzero con una foglia di stevia a fare da contraltare. Il dessert è il trionfo del cioccolato, la morbidezza del fondente con la granulosità della panure, dolce e salato che si mischiano. La lavanda è prepotente nella spugna ghiacciata con cui terminiamo.

Ma Valentina non è solo una chef. È anche passione per l’arte e per il teatro, è voglia di “rivoltare questa città come un calzino”. E alla sua tavola la cena si apre con piccole torce che illuminano il tetto, con Ugo che sale sul palcoscenico del giullare e ci guida alla conoscenza degli altri commensali, per rompere il ghiaccio. Lo stesso Ugo che prende i libri che ciascuno di noi ha portato e ne legge una pagina o una frase, a metà strada fra il cuore e il sorriso.  E per una volta buttarsi, a occhi chiusi, ti regala una scoperta.

Pubblicato il 23 aprile 2015 su www.dipalermo.it


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