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Profumi e balocchi

C’erano i profumi da ragazzina, poi quelli che usavo quando iniziavo a diventare donna insieme alle prime scarpe col tacco. E poi c’è il MIO profumo, quello che oggi è mio. Il muschio bianco anni Ottanta, le fragranze di Armani che facevano molto “Milano da bere” anni Novanta (anche se stavi in  provincia di Palermo, vabbè: avevo sempre vent’anni e venti chili meno, oh!).

Poi per anni ho smesso di usarlo, finché non mi sono innamorata. Ho iniziato a usare un’acqua per il corpo che usava lui, speziata, molto maschile ma che addosso mi stava benissimo. E me lo faceva sentire vicino, me lo ricordava ogni minuto, me lo sniffavo quando ne avevo nostalgia. Poi la casa produttrice la levò dal commercio (l’acqua profumata) e io ho smesso di amarlo (l’uomo, sbagliato manco a dirlo).

Sono tornata “parfum-free” per un po’, convinta che qualsiasi profumo su di me dopo un po’ puzzasse. È stata un giorno una commessa in profumeria, dopo che avevo speso mezzo stipendio, a regalarmi un po’ di campioncini. L’ho provato, mi è piaciuto. Ero indecisa. Un altro lui dopo che ne avevo provati altri venticinque in un pomeriggio mi disse: “È questo il tuo, basta!”. Così è diventato il mio profumo, il lui si è perso nel frattempo.

Perché dire il mio profumo non è una banalità. È sentirsi nella propria pelle, riconoscere quell’odore su una sciarpa. È usarlo in qualsiasi stagione, perché è il tuo, sei tu. È un messaggio: “Sono al lavoro e ho sentito il tuo profumo, mi sono girato per vedere se fossi qua”, che te lo fa sentire ancora più tuo (il profumo, non il mittente).

Poi metti che domani mi sveglio Marilyn (con il famoso n° 5)…


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