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Quando eravamo meglio di così

 

di Francesco Massaro

In un film di Woody Allen, credo sia Manhattan, due intellettuali parlano a un party. Uno dice, più o meno, l’hai letto l’articolo sul New York Times contro i nazisti? Li demolisce. E l’altro risponde certo un articolo sul New York Times è una gran bella cosa, ma vuoi mettere prendere i nazisti a colpi di mazza sui denti? Ecco, fondamentalmente è quello che penso dei rapporti fra le persone.

Certo non sono così animalesco da invocare la violenza su ogni contraddittorio, ma non riesco a togliermi di dosso questa dannata sensazione di disagio, il colpevole disagio per avere delegato le nostre beghe, le nostre liti, a una tastiera e a un computer, imponendoci un’aura di intellettualità che molti di noi, io per primo, non abbiamo.

Il post al vetriolo, il commento, il commento sul commento sul commento e così via, cancella l’amicizia e ridai l’amicizia, il profilo fake per studiare le tue mosse, ti banno o forse no, un infinito viavai pieno di niente che non porta da nessuna parte e che a ben pensarci fa anche un po’ ridere. La parola giusta, l’offesa sottile, la citazione, il riferimento trasversale, la supercazzola come se fosse antani, ma che palle.

Perché Facebook ha regalato a tutti noi una maschera che ci piace ma non ci corrisponde, togliendoci la cosa più importante e vitale che abbiamo: il sangue nelle vene. La lite virtuale ha finito per svilire la lite stessa, relegandola a una triste girandola di autoreferenzialità, tutto a uso e consumo della massa, degli amici, dei followers plaudenti. È lo scontro che chiamiamo confronto, l’occhio per occhio urbi te orbi, il regolamento di conti seduti su una sedia, magari in pigiama e annoiati, pigiando i tasti con la stessa furia con cui un tempo, da bambini, nel cortile di casa o della scuola, mollavamo boffe a destra e a manca e poi il giorno dopo eravamo tutti lì a giocare a pallone.

Ma quant’eravamo più belli quando non ci nascondevamo dietro a un computer a compiacerci delle nostre parole inutili?


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